di Lorenzo Erroi
La sociologa Supsi Francesca Coin esplora i sintomi – spesso sottovalutati – di un mondo del lavoro minacciato da impieghi precari, sottopagati, stupidi
“E a quel punto dici: ma sai che c’è? Perso per perso, andassero affanculo. Ci avevano detto che ogni persona può diventare ciò che vuole, se si impegna abbastanza. Ma quella storia non si è mai realizzata. Ci sei solo tu che sputi sangue e loro che con i soldi che a te non danno comprano un’ottima bottiglia di champagne. E allora dici, vabbe’, ma è veramente tutta una presa in giro?”.
Precariato, mobbing, orari estenuanti, un ambiente lavorativo dispotico e orwelliano: sono molti i motivi che spingono sempre più persone “a quel punto”: quello buono per mollare tutto anche se non si hanno alternative in mano, insomma ‘Le grandi dimissioni’, titolo dell’ultimo lavoro di Francesca Coin appena pubblicato e già ristampato da Einaudi. La sociologa Supsi ha raccolto decine di testimonianze come quella che leggete qui sopra, dando corpo e voce a un fenomeno che ogni anno interessa milioni di lavoratori in America, in Europa, perfino in Cina. Poi ha unito i puntini.
Proviamo a tracciare l’identikit di chi si dimette più spesso: sono giovani, hanno soldi da parte e famiglie agiate alle spalle, magari un impiego alternativo già all’orizzonte? Oppure si tratta di un gesto di disperazione, il canto del cigno di tanti Fantozzi 2.0?
Né l’una, né l’altra cosa. Se stiamo ai dati del 2021 per l’Italia, ad esempio, possiamo dire che una persona su due, quando lascia, non ha in mano un’alternativa. Sappiamo anche che i settori da cui si va via, un po’ in tutti i Paesi occidentali, sono spesso i più poveri: grande distribuzione, ristorazione, logistica e, in molti casi, la sanità. Però non lo definirei un atto di disperazione: l’esasperazione c’è, ma certi gesti rappresentano in fondo un’affermazione di sé da parte di chi cerca di più.
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